Ludovico Ariosto (1938-1940)

Introduzione a una scelta antologica, essenzialmente dall’Orlando Furioso, per il vol. II de «I classici italiani», opera scolastica in tre volumi diretta da Luigi Russo, Firenze, Sansoni, 1938-1941. L’introduzione sarà riprodotta senza variazioni, e datata 1938-1940, in L. Ariosto, Orlando Furioso e opere minori scelte a cura di Walter Binni, ivi, 1942, 19696. Omettiamo la scelta antologica commentata. A questo primo scritto ariostesco Binni dedicherà riflessioni autocritiche nella sua Premessa a W. Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto e altri scritti ariosteschi, a cura di Rosanna Alhaique Pettinelli, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1996, collocata in chiusura di questa edizione alle pp. 415-418 sia per ragioni cronologiche sia perché costituisce una sorta di bilancio del complessivo percorso di studi dedicati alla poetica e alla poesia di Ariosto a partire dal primo «incontro» del 1938-1940.

Ludovico Ariosto

Questa scelta dalle opere ariostesche si riduce quasi esclusivamente ad una scelta dall’Orlando Furioso, perché di pochi scrittori come dell’Ariosto si può dire che tutta la loro grandezza è fiorita in un solo libro e che le altre opere solo con sforzi intellettualistici e per disegni a tesi possono essere ammesse nel cerchio della vera realtà artistica.

In questa scelta dell’Orlando si vuole dare non tanto l’intelaiatura del poema quanto i brani di vera grandezza, i brani di piú pura ispirazione: e perciò vi sono accolte quelle speciali novelle di Norandino, di Marganorre ecc., che comunemente non arrivano cosí distinte agli studenti di scuola media, cui per tradizione vengono piuttosto presentati i brani contenutisticamente centrali del poema. Ed invece nel mio commento, pur tenendo conto delle esigenze narrative del poema (e perciò le parti mancanti sono state sunteggiate), ho voluto insistere sulla natura tutta poetica dell’opera, ho voluto lumeggiare il carattere musicale e visivo della poesia ariostesca, ho voluto insegnare a leggere la poesia come poesia, l’Ariosto come Ariosto e a far coincidere nella lettura gli intenti e i risultati della fantasia. Si noterà perciò una certa scarsità di riferimenti storici e di note illustrative, e ciò ho voluto perché gli scolari non siano distratti verso intricate genealogie, verso lunghi precedenti contenutistici se non quanto basta per comprendere il valore poetico dell’espressione .

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Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia l’8 settembre I474 da Daria Malaguzzi e Niccolò, capitano della rocca al servizio dei duchi d’Este. Trasferitasi la famiglia a Ferrara, iniziò nel 1488, per volere del padre, gli studi di giurisprudenza per i quali non aveva nessuna inclinazione e che fu poi ben lieto di abbandonare per darsi al perfezionamento della sua formazione umanistica, sotto la guida di Gregorio Elladio da Spoleto. Nel 1500, in seguito alla morte del padre, dovette occuparsi della amministrazione del patrimonio familiare e dell’educazione dei quattro fratelli e delle cinque sorelle, lasciare lo studio disinteressato delle lingue classiche, cercare un impiego per aiutare le scosse possibilità finanziarie della famiglia. Finisce cosí un periodo di facile agio e si apre nella vita dell’Ariosto quel caratteristico contrasto fra la sua aspirazione alla vita tranquilla e privata, lontana da ogni gara d’uffici, e la necessità di passare gran parte della sua giornata in attività non amate, continuamente assillato dal fastidio delle faccende che d’altra parte, per la sua indole onesta e docile, sbrigava nel miglior modo possibile. Questo contrasto tra ideale e pratica di vita dava tanto piú alle sue ore di libertà un’aura di felicità conquistata e sofferta e al suo gusto del sogno poetico un’apparenza di compenso divino. Dopo avere accettato nel 1502 l’ufficio di capitano della rocca di Canossa, venne chiamato, l’anno seguente, al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca regnante, e si trovò costretto a mansioni varie e assai disadatte alle sue qualità: qualcosa tra segretario, ambasciatore personale e cameriere privato di un uomo che non era in grado di apprezzarlo minimamente. Come appartenente alla» famiglia» dei duchi di Ferrara si trovò alla battaglia di Polesella, come segretario del Cardinale si recò a Roma in pericolose ambascerie presso Giulio II nel 1510, per ritornarvi poi nel ’12 insieme al duca Alfonso a placare l’ira del papa contro gli Este e per fuggirne con un viaggio avventuroso attraverso gli Appennini. A Roma tornò nel 1513 nella speranza di ottenere un posto in curia dal nuova papa Leone X, che aveva conosciuto come cardinale dei Medici; e ne riportò una delusione che dové restare, accanto all’incomprensione sofferta costantemente a Ferrara, come base personale di una esperienza della vita «assai piú triste che serena». Ma la sua docilità rassegnata trovava un limite invalicabile nel suo crescente fastidio per i disagi dei viaggi e per la lontananza da quella città di Ferrara dove aveva ormai riunito un amore tranquillo e sereno per Alessandra Bonucci vedova Strozzi, da lui conosciuta a Firenze nel ’13, e la possibilità di ore libere da dedicare alla creazione del suo mondo poetico. Cosí che nel ’17, quando il cardinale Ippolito partí per la sua nuova sede di Buda, il poeta si rifiutò risolutamente e passò ai servigi del duca Alfonso. Anche il nuovo padrone volle nel ’22 allontanarlo da Ferrara, ma con l’impiego abbastanza onorevole di commissario in Garfagnana, provincia di montagna passata da poco sotto il dominio degli Este e piena di partiti rivali e di briganti che resero difficile e preoccupante il governo ariostesco durato fino al ’25. Dopo questo ultimo episodio, il poeta si trovò piú apertamente costretto a cure pratiche ben lontane dal suo ideale di vita, e in cui viceversa dette prova di senno e di energia, maggiori certo di quelli del duca Alfonso che lo impacciava continuamente nel suo governo ora richiedendo azioni severe, impossibili date le poche forze che gli metteva a disposizione, ora annullando giuste decisioni e deprimendo cosí la sua autorità. Ma da questo ultimo ufficio l’Ariosto poté ricavare una certa somma di danaro che gli permise finalmente di costruirsi una casa propria in cui passare gli ultimi anni della sua vita in quell’agio di quiete e di libertà dagli affari altrui che aveva prima inutilmente tanto desiderato. Nel 1532 pubblicò per la terza volta l’Orlando che aveva già edito una prima volta nel ’16 e una seconda nel ’21: nella prima redazione il poema constava di quaranta canti e la lingua era molto simile a quell’emiliano illustre che era stato autorizzato soprattutto dal Boiardo, mentre nella seconda, mantenendo intatto il disegno generale, operava spostamenti e tagli e liberava la lingua da molti degli abbondanti dialettalismi avvicinandosi senza pedanteria alla forma toscana della grande tradizione italiana. Nella terza edizione il poeta invece apportò un sostanziale rinnovamento del poema: aggiunse l’episodio di Olimpia, il racconto della rocca di Tristano, la novella di Marganorre, e infine le vicende complicate di Leone e Ruggero, le quali ultime danno, esse sole, il senso di un affaticarsi della divina fantasia ariostesca. Anche la lingua viene condotta ancor piú vicino all’ideal tipo bembiano, ma sempre con un tal senso di libertà e di ossequio piú al gusto che ad un’astratta coerenza, che è una prova di piú della singolare e fortissima originalità dell’Ariosto. Dopo quest’ultimo grande lavoro, il poeta venne sopraffatto da un’infermità che lo condusse alla morte il 6 luglio del 1533.

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La posizione umana dell’Ariosto ha sempre suscitato in rapporto alla «saggezza» dell’Orlando le intenzioni piú varie e pur coincidenti: carattere debole e cortigianesco, accomodante con la vita; dramma dell’uomo libero e costretto alla soggezione, dell’uomo pacifico costretto a un’attività per lui fastidiosa. Noi nella vita dell’Ariosto, a parte la sua esemplarità («sic me contingat vivere, sicque mori» disse lo Harington), troviamo una vita di poeta puro (nel senso piú alto e umano della parola), istruttiva per i rapporti vita-poesia. Quell’attaccamento alle cose comuni e agli affetti essenziali, quel saper dare una dirittura alle proprie azioni senza portarle mai su di un piano programmatico, volontaristico, quel fastidio delle cose pratiche pur vivendole e gustandole in quanto costituiscono abitudini e clima della nostra giornata, quel lamentarsi oltre misura delle faccende che però si compiono con nettezza e senza ribellione, sono caratteri che allontanando l’Ariosto dal «genio» romantico lo avvicinano invece ad un’umanità intensa e istintiva nella sua apparente mediocrità, che ci appare essenziale in uomini che con modestia di artigiani fanno dell’arte la propria vita mantenendo le loro azioni nella misura piú semplice e primaria.

Ci sono poeti vistosi ed essenzialmente retorici, che hanno bisogno di rivelarsi sul piano umano e di imprimere i loro monogrammi fastosi su ogni minima azione, mentre i poeti piú intimi riservano ai loro vizi e alle loro virtú uno stadio di sincerità e di sobrietà intatte da ogni moda e da ogni cultura. Non ci interessa tanto la tranquillità ariostesca («Lodovico della tranquillità») quanto questo atteggiamento primitivo, senza gusto di primordialità, che distingue coloro che del tempo hanno un sentimento interiore che li sottrae alla rovina dei programmi e degli impegni. Questa vita umana e poetica dell’Ariosto ci rimanda comunemente alle Satire, al documento che l’Ariosto ci ha lasciato per farci entrare nella sua esperienza ancora calda e immediata, E insieme alle Satire testimoniano di lui le lettere e quanto egli scrisse di privato. È naturale che, dopo quanto abbiamo detto del temperamento umano dell’Ariosto, le Satire, espressione appunto di tale temperamento, leghino piú direttamente che non i suoi esercizi poetici di scuola l’Ariosto uomo all’Orlando Furioso, e ci possano quindi servire a ritrovare non tanto quel contenuto poetico che solo l’Orlando stesso ci dà, ma la sicurezza della sua sincerità intatta da ogni possibile soprastruttura ideologica e culturale. Il suo ideale di vita modesta e raccolta è la premessa naturale dell’attenzione che egli ebbe per il ritmo della vita, dell’attenzione con cui realizzò il suo sogno in zone che solo il silenzio caldo di affetti, non l’astrattezza gelida, può offrire all’artista.

Le Satire riescono dunque a darci (sia pure investite a loro volta dalla suggestione potente del capolavoro e soprattutto dalla moralità espressa nelle sentenze iniziali dei Canti) l’immagine dell’autore dell’Orlando Furioso nelle sue inclinazioni, nella sua geografia sentimentale, non schematizzata, ma sentita nei tratti piú veri e nel suo particolare senso della vita. In certo modo, rispetto all’Orlando Furioso esse inibiscono ogni minuta ricerca sull’Ariosto uomo, tanto in esse ci si prospetta un carattere tutto fuso con le piú istintive esigenze dell’uomo naturale e dell’uomo poetico.

Qual è il valore artistico delle Satire? Complessivamente non si va oltre il gustoso e raramente, se non nella fiaba della luna, l’esempio, che del resto non vuole essere liberazione poetica, riesce a esulare dall’atmosfera narrativa, quasi aneddotica della satira. E si può notare, sempre circa la fiaba della luna, che sulla strada della Satira l’Ariosto non poteva incontrare che la fiaba, non la divina soprarealtà che lo libera dal mondo e dai suoi limiti nell’Orlando Furioso. Da un’impostazione non puramente oraziana, ma certo illuminata dall’esempio dei Sermones e dal loro andamento volutamente prosastico, le Satire si staccano per una decisa autobiografia avviata non al pittoresco (il viaggio per Brindisi di Orazio), ma semmai alla risoluzione ironica ed autoironica della fiaba. Cosí nella Satira III, dopo la narrazione dell’insuccesso alla corte di Leone X, cosí misurata ed essenziale (il bacio sorridente del pontefice, il ritorno attraverso la Roma papale all’osteria del Montone, col giubilo eroico del gabbato), i sentimenti tra sdegnati e bonari sfociano nella consolazione dell’apologo che canta le sue qualità smaglianti di brio e di evidenza, ma senza staccarsi dalla sua natura, senza arrivare a quella piena meditazione fantastica che esalta ogni minimo episodio anche apparentemente parentetico e diversivo dell’Orlando. Anche l’attaccamento ai motivi pratici, che ci ricorda la natura epistolare delle Satire, arriva a quel limite di apparente grettezza che non vuole né far ridere, né coprirsi di letteratura e pure dà a questa poesia minore, prosastica un suo tono inconfondibile di volontaria testimonianza della validità dei valori istintivi primari:

E non mi nocerebbe il freddo solo

ma il caldo de le stufe, ch’ ho sí infesto,

che piú che da la peste me gl’involo.

Cosí che senza preziosismi le parole sono calate, pregne della loro praticità

(Bisogneriano pentole e vasella

di cucina e di camera e dotarme

di masserizie qual sposa novella),

entro un giro che della prosa assume gli aspetti di sintassi piú nuda, non per far rifulgere, come Orazio, la perizia somma di una rozzezza apparente e di una perfezione sostanziale, ma per un istintivo bisogno della piú empirica espressività. C’è il ritmo di una oggettività appassionata cui l’uomo poeta riferisce anche gli elementi socievoli della vita nella loro funzionalità, nel loro schema primitivo. Solo raramente quel tanto di polemica con i padroni che scorre sotto l’esposizione delle necessità e dei disturbi della vita alza il tono stilistico a linguaggio violento e il discorso della Satira ad eloquenza fluida e impetuosa:

è perché alcuna volta io sprono e sferzo,

mutando bestie e guide, e corro in fretta

per monti e balze e con la morte scherzo,

dove si assiste quasi all’epica immaginaria e pur risoluta dell’uomo strappato alle occupazioni sue, alla vita intima e per cui il ritmo della vita esteriore diventa un martellare vertiginoso e convulso fino alla presunzione di un eroismo non desiderato.

Anche la natura è qui né stilizzata né deliberatamente assunta a motivo pittorico, ma agisce come senza intenzione, attutita in accenni utilitari, in riferimenti di cose e perciò tanto piú adatta a creare non atmosfera, ma realtà di paesaggio geografico:

da questi monti

che danno a’ Toschi il vento di rovaio ...

La nuda Pania tra l’aurora e il noto,

da l’altre parti il giogo mi circonda

che fa d’un pellegrin la gloria noto ...

Questa è una fossa, ove abito, profonda,

donde non muovo piè senza salire

del silvoso Appennin la fiera sponda.

Un paesaggio cosí poco fantastico e ricreato che forma come il sostrato affermato, sicuro dei grandi paesaggi favolosi dell’Orlando, come i sentimenti limitati ma tutti umani ed esperimentati delle Satire formano la libertà assoluta, su di una base vitale, dei grandi sentimenti del Poema. L’attacco al sogno geografico dell’Orlando è infatti nei famosi versi 66 ss. della Satira III in cui già si gustano i paesaggi fantastici, ma pure umani, appunto per la loro aria di uscire da un atlante amorosamente seguito e diventato guida ai sogni, in un ambiente di affetti e di intenzioni totalmente umane e concrete.

L’importanza delle Satire è dunque soprattutto in questa base sicura, concreta alla soprarealtà dell’Orlando, e d’altra parte in questo discorso in cui agevolmente si insinuano, come punto di liberazione senza enfasi, le fiabe, siano esse piú ad apologo come quella delle bestie al pozzo, siano piú aneddotiche come quella dell’anello miracoloso che assicura della fedeltà delle donne, siano piú assolutamente fiabesche come quella della luna:

Quei ch’alti li vedean da’ poggi bassi,

credendo che toccassero la luna

dietro venian con frettolosi passi.

Se le Satire riescono a indicarci la via che può condurre dal contenuto psicologico ivi espresso nella sua immediatezza al suo superamento in esigenze di alta spiritualità, a indicarci la forte elementarità ariostesca e come la vocazione al sogno si svolga solamente in fiaba finché si resti sul piano del temperamento e dei suoi sfoghi, le Rime, i Carmina, e le Commedie, prodotti piú visibilmente letterari, offrono scarsissima presa ad un’indagine sulla formazione del poeta, sui problemi estetici che egli si avvia, prima dell’Orlando, a risolvere, sulle forme a cui si indirizza la sua sensibilità. Astrattamente si potrebbe creare una sorta di parallelismo fra le Satire e le Rime e cercare nelle seconde la formazione artistica, la scuola poetica dell’Ariosto, ma in realtà esse resistono ad ogni desiderio di ricavarne quelle movenze caratteristiche, magari quei preziosi errori, che indicano la presenza della personalità indirizzata a nuove soluzioni letterarie e poetiche.

Le Commedie, a parte la natura cortigianesca e occasionale, appartengono alla sua cultura latina, all’ossequio per la moda di commedie classiche, ma non ci dicono nulla né per sé stesse né per l’Orlando: sono semmai l’esempio di quel realismo astratto da cui in esse l’Ariosto si liberò e di quella ricerca della comicità ad ogni costo che nella situazione del poema è completamente abolita, dato che essa nasce da un’impostazione nettamente contenutistica e dalla fiducia in un particolare pettegolo, fotografato e fonografato. E anche quel cinismo che abbonda soprattutto nella «Lena» non ci significa se non che il poeta di corte non sapeva applicare una censura coerente a quanto non rientrava nella sua ispirazione, che non conosce lo sdegno morale di un Machiavelli.

E se le Commedie non possono dirci nulla del gusto comico dell’Ariosto, proprio perché non c’era in lui quella liberazione della comicità della vita pratica se non nel sogno e nella musica, lontano dal pregiudizio teatrale cui egli aderiva solo per quel tanto di cultura meno originalmente assorbita dai contemporanei, le Rime risentono di un simile pregiudizio e si aggravano della natura di lirica interiore, non esplicita, propria della poesia dell’Ariosto.

La natura convenzionale dei Carmina e delle Rime è chiarita dall’adesione totale agli schemi e dal mutamento di tono a seconda degli schemi osservati: il De Sanctis aveva già detto: «I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca; in latino sono sensuali, alla oraziana». Solo gli epigrammi indicano la linea che l’Ariosto doveva seguire sulla strada della saggezza poetica, solo la precisione degli epigrammi riesce a coincidere col bisogno di disegno netto se pur tenue che l’intelligenza ha sempre imposto nella scoperta del ritmo conduttore: ad esempio l’epigramma per la propria tomba.

O semmai nel testo petrarchesco è un’irruzione dell’impeto di canto a sviluppare inatteso un concetto e a sconfinare, a fiorire oltre la sua funzione. Cosí illuminata che sembrerebbe quasi grottesca, squilibrata rispetto ai limiti che sorpassa:

occhi miei belli mentre ch’io vi miro,

per dolcezza ineffabil che ne sento,

vola come falcon ch’ha seco il vento,

la memoria da me d’ogni martiro.

Intuizioni frenate dal clima petrarchistico cui egli concedeva una nobiltà di genere e di tradizione e in cui non mancava quel bisogno rinascimentale di nobilitare gli affetti umani in forma: e forma dell’affetto amoroso sembrava esclusivamente quella petrarchistica, sorretta dalla speculazione contemporanea dei platonici fiorentini. Anche alla bellezza solo piú tardi, nel grande fuoco cristallino dell’Orlando, il poeta saprà consacrare una poesia aderente e visiva, una trasfigurazione (Olimpia), non un’astrazione programmatica.

Senza insistere qui sulla vitalità del petrarchismo e sulla sua funzione rinascimentale basterà osservare che l’Ariosto rendeva qui l’omaggio ai canoni del suo tempo come il Boccaccio nelle ballate e nella cornice del Decameron aveva reso omaggio allo spirito cortigiano del suo secolo, ma che, come in quello un’atmosfera di gentilezza riannoda la cornice al grande senso delle virtú cavalleresche, potenziate modernamente nelle novelle, cosí in questo il petrarchismo come nobilitazione degli affetti e ossequio allo spirito poetico del tempo si riannoda alla piú seria, istintiva e lirica trasfigurazione degli affetti essenziali dell’Ariosto nella poesia del poema.

Ma se il petrarchismo forma il motivo deteriore dell’Orlando giustificabile come modo tradizionalmente lirico che a distanza porta il suo tono alla vita del poema, noi sentiamo che l’Orlando è tutto fuori dell’ambito specificatamente petrarchistico, mentre vive di una larga ispirazione rinascimentale nel suo lato piú concreto e piú poetico: creazione di quella soprarealtà poetica, di quel mondo di perfetta agevolezza, cui tutte le formule critiche hanno cercato di avvicinarsi, arrivando sempre piú ad una sorta di vicinanza che è prova dell’individuazione sempre piú sicura del bersaglio. Si potrebbe fare una storia della critica ariostesca a ritroso risalendo alle doppie soluzioni: realismo da un lato, arte epicurea dall’altro fino a ritornare al giudizio dei contemporanei che si adattava alle leggi della imitazione della natura e quindi degradava la creazione ariostesca a puro fatto ornamentale. Si vedrebbe in complesso che piú si è acquistata coscienza del pensiero, della civiltà rinascimentale e piú l’Ariosto si abbandona al suo canto, e che il suo vero carattere si è venuto svelando soprattutto dopo che i poeti non han piú detto di voler insegnare.

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Lo sviluppo del problema critico ariostesco aiuta ad intendere, piú che non avvenga per ogni altra opera di poesia, la vera natura della poesia dell’Orlando e la sua reale inattaccabilità ad una coscienza critica che non abbia superato le prove del fiabesco, del meraviglioso, dell’epico ecc. ecc., che non abbia saputo risalire fino alla sorgente unica delle caratteristiche di quel mondo senza isolarla in un contenuto o in un’astratta idea. Vogliamo dire che la coscienza critica ed estetica moderna per quanto non abbia insistito molto sull’Ariosto, come invece ad esempio sul Leopardi, ha indubbiamente preparato per l’Ariosto una comprensione totale. (Sia detto fra parentesi che l’Ariosto è rimasto per troppa gente autore scolastico o al massimo pretesto di fiaba e di adolescenza, perché è cosí povero di attacchi romantici, è cosí spiritualmente rinascimentale, che solo una aggiunta coscienza storica può riaffermarlo in tutto il suo valore eterno).

Quando l’Orlando uscí, l’atmosfera era ancora o polizianesca o petrarchistica e la precedenza del Boiardo era adatta a sviare la comprensione dell’Orlando sulla strada facile delle somiglianze e del paragone con la scuola cavalleresca; e subito dopo, l’aristotelismo della controriforma portava l’Orlando a paragoni con il reale naturalistico e con la coerenza logica dei fatti. È da questi commentatori cinquecenteschi che si è formata tutta l’aneddotica ariostesca delle sue distrazioni e incongruenze di racconto (eroi morti che rinascono a combattere) e poi coerentemente anche sulla vita ariostesca (l’Ariosto che va fuori di città in pianelle ecc. ecc.) come quella di un uomo acchiappanuvole che il periodo razionalistico accetterà con un certo sorriso di indulgenza per la fiaba che il preromanticismo comincia a vedervi. Si azzarda la valorizzazione complessiva di quella divina realtà come in Galileo non per comprensione cosciente, ma per amore istintivo del canto senza ostacoli e della multiformità sempre attraente del racconto poetico. In questo senso l’Orlando ha avuto sempre una grande fortuna di amatori, di entusiasti, ma troppo spesso per le stesse ragioni per cui può averli non un Mozart, ma un Rossini.

L’omaggio di Voltaire può essere piú di quello di un Galilei, l’omaggio ad un intervento della ragione ordinatrice, interna nella creazione della fantasia, un gusto della miniatura nella nitidezza ariostesca e d’altra parte un preannuncio di quel gusto dell’ingenuo che un esame superficiale può accertare nel candore di quella poesia.

Mentre la battuta del Tasso di Goethe, superando i problemi dei commentatori cinquecenteschi sulla natura seria o giocosa del poema e cioè sulla sua interpretazione naturalistica («ride o parla sul serio?»), che si ripresenta poi subito per altre ragioni nei romantici, avvicina invece la natura dell’Orlando, oltre che nella personalità dell’autore goethianamente sentito (Saggezza serena), anche nel suo carattere di tempio rinascimentale, di Divina Commedia del rinascimento, delle virtú rinascimentali. Con il romanticismo e la nascita della critica letteraria i termini del problema ariostesco si avviano, attraverso la rinverdita disputa sul serio o giocoso, epico o ironico, all’accentuazione dell’ultimo termine «ironico», per indicare da un lato che l’Ariosto assume il mondo cavalleresco come puro materiale disgregato e dall’altro che si libera dal tragico di questa morte con il riso di chi appartiene a un nuovo mondo. Ironia che poteva apparire venata dl malinconia come nel famoso lamento ambiguo: «O gran bontà dei cavalieri antiqui!», ironia che assumeva agli occhi delle due schiere reazionarie e antireazionarie un tono di beffa condannato o lodato su ogni istituzione sacra e profana; e quindi sorgeva un lato ideologico, di satira o di indifferenza che ha semmai il suo colore non nella valutazione estetica dell’Orlando, ma nella posizione umana del suo autore.

Un vecchio problema di origine contenutistica sulla unità o meno del poema veniva ripreso da un punto di vista piú interno e ci si avviava alla conclusione che l’unità c’era, proprio nell’apparente dispersione, e che le leggi del viaggio fantastico non sono che quelle della libera fantasia e si arrivava a concedere una bizzarra libertà che poi si riconobbe come tutte le vere libertà, organizzata e articolata in mezzi di salda struttura. Quando già le affermazioni romantiche avevano trovato la loro parziale conclusione nel De Sanctis, la scuola filologica convergeva la sua attenzione su l’Orlando come su di una miniera solo parzialmente e non scientificamente esplorata di reminiscenze, di imitazioni, di debiti verso i poeti precedenti. È il famoso lavoro del Rajna sulle Fonti dell’Orlando Furioso, che, a parte le meschine conclusioni basate su un presunto razionalismo ariostesco di fronte alle fonti piú romanzesche, assume un positivo valore se lo si considera come una raccolta di materiale offerto a chi voglia con gusto estetico ricercare e precisare l’origine e il carattere di quell’atmosfera romanza che circola sotto la precisazione rinascimentale come un’allusione continua a un motivo caro del ricordo e della fantasticheria di un uomo e di una cultura (dopo il lavoro dello Huizinga, si può accennare anche alla mediazione della corte borgognona di una rinnovata cortesia cavalleresca sulle soglie del mondo moderno). Non si è ancora fatto un lavoro sul come il poeta risentisse questi ricordi in modi cari del cuore e non si è abbastanza sentito quanto la grande civiltà cavalleresca romanza sia stata assunta dall’Ariosto a creare una patina di sfumatura e di lontananza alle sue grandi visioni rinascimentali. Basti qui accennare a come questo senso del mondo romanzo apre la strada e concretizza in regioni e in stagioni concrete e sognate il bisogno di errare nel tempo e nello spazio che è alla base della costruzione del poema. E i nomi stessi romanzi cadono nei momenti piú evocativi e paesistici del poema: Ginevra, la rocca di Tristano ecc.

Ma naturalmente lo stadio filologico inquisitoriale rappresentava solo funzionalmente, a mezza coscienza, tale utilità delle fonti cavalleresche romanze e tendeva invece a invalidare la grande spinta romantica a considerare il Furioso in sé e per sé come creazione, come frutto di un’operazione tutta artistica, imparagonabile, almeno alla sua radice, con qualsiasi altra opera d’arte. E per critica romantica intendiamo le pagine del Gioberti e quelle del De Sanctis, non certo le esemplificazioni dei romantici tedeschi che appartengono semmai al primo stadio piú ingenuo, tutte puntate sul Furioso come esempio della libertà creativa e dell’ironia.

Il Gioberti, le cui pagine possiamo dire le piú interessanti prima di quelle del De Sanctis, a parte i giudizî tradizionali («principe della cantica eroica») accentuò, anche senza trarne le conseguenze, da un lato il senso delle cose come concretezza alleggerita, non astratta, dal servire ad una nuova vita musicale («il poeta della fisica»), e dall’altro una sorta di eclettismo, cioè di libertà fantastica per cui l’Orlando gli si trasforma in una specie di viaggio in cui l’Ariosto è «tirato, come ogni gran fantastico, dall’istinto cosmopolitico» e in cui la massima precisione geografica si mescola a creazione di località completamente immaginarie «sí che introduce quell’arcana perplessità di contorni, che tanto garba all’immaginazione, quando entra nel mondo ignoto o poco conosciuto». Certo biasima «i suoi trascorsi contro i costumi e la religione», «riflessi del secolo», e cerca di definire la sua intelligenza alla luce della sua posizione religiosa: «era uomo di un cervello troppo robusto e italiano per lasciarsi adescare alla misticità boreale e splenetica dei primi protestanti»; ma, pur nel trovare che l’unità del poema è data dalla cavalleria, la precisazione di questo contenuto come senso del vivere libero ed errabondo, eroico e fantastico, piú forma e amore del multiforme che altro, indica una scoperta che sarà ripresa piú tardi, come l’insistere su «l’accozzamento del naturale con lo strano e con l’improbabile» indica la strada sviluppata dalla critica piú recente.

E la serrata sensazione dell’unico tono dell’Orlando Furioso spingeva il suo acuto ingegno a trovare sí due mondi: ironia e amore della cavalleria, ma uniti, «perché questi elementi rampollano da un oggetto unico, cioè dal tipo cavalleresco ridevole in quanto manca di condegno scopo, bello e attrattivo inquanto abbonda di forza, di spirito, ed è sprigionato dalla prosaica realtà della vita odierna, sí che ne nasce quella fusione intima dei due componenti, quella armonia e unità di concetti, quella fluttuazione dilettevole fra la gravità ed il riso, che si risolve per chi legge in un’impressione di gioia pacata e sorridente, per chi scrive in un’ironia dolce, arguta, socratica, leggiadramente maliziosa». E si avvicinava cosí alle intuizioni fondamentali del De Sanctis, piú profonde ed assolute, ma piú divise e inconciliate: alla affermata totale esteticità del Furioso e alla sua oggettività quasi impersonale, alla satira e alla indifferenza. Diciamo subito che, pur se questi possono essere errori da un punto di vista critico piú cosciente, il De Sanctis ha veramente segnato per l’Ariosto il punto di partenza della critica moderna e il punto di arrivo della critica romantica. Nel piú romantico dei suoi scritti sull’Ariosto, quello sulla poesia cavalleresca come genere, il De Sanctis era ossessionato dallo schema concezione-situazione come contrapposto di astratto e concreto e, servendosene come passaggio dal Boiardo all’Ariosto, faceva di quest’ultimo il poeta delle situazioni concrete in cui ogni carattere (Fiordiligi ad esempio) viene calato volta per volta in una particolare situazione. Ma questa determinazione in sé generica e contenutistica doveva servire nel capitolo della Storia della Letteratura italiana per affermare la sostanziosità dell’arte ariostesca, fino ad una forma di realismo in cui la situazione è cosí pregna, la naturalezza cosí vitale da sembrare che le cose, non il poeta, si esprimano.

E dalle pagine delle lezioni di Zurigo scendeva la constatazione di un elemento affermativo, umano accanto a quello meraviglioso del cavalleresco. Cosí egli cercava le leggi per cui il poema era un mondo e non un cumulo di episodi o l’esemplificazione di una idea, cercava l’esistenza di una poesia dell’umano (Zerbino ad esempio) che gli faceva esclamare «sentite quanto cuore aveva l’Ariosto!». La complessità dei problemi avvertiti dal De Sanctis mal si riduce sotto l’unica formula dell’«arte per l’arte», che il grande critico napoletano mutuava dal Gautier, dalla tendenza parnassiana e decadente ormai sviluppata in Europa, ma con una ingenuità piú romantica e priva del carattere polemico e programmatico che quella formula aveva per le nuove scuole.

Egli quasi per uno schematico parallelo con il Machiavelli (panpoliticismo) e in seguito alla nota caratteristica rinascimentale vedeva nell’Ariosto il trionfo dell’interesse artistico sopra ogni altro ideologico o psicologico, e costretto dal suo dissidio contenuto-forma e poeta-artista a dichiarare un contenuto a quella forma perfetta e senza pieghe, senza squilibri, senza abissi di ansie sentimentali o di tormenti intellettuali, arrivò a dare alla forma per contenuto la forma stessa e all’artista il predominio sul poeta che dalla tradizione foscoliana manteneva il suo tono di vate.

L’intelligenza di un Croce poteva facilmente trovare errate le formule desanctisiane («arte per l’arte», la distinzione tra artista e poeta e l’oggettività ariostesca), ma è indubitabile che gli errori ricchi del De Sanctis indicavano la mancanza di volontà programmatica nell’Ariosto e se, attirato dalla sua forma sentenziosa e pittoresca, il De Sanctis dalla contrapposizione di Dante e Ariosto arrivava ad una descrizione del mondo morale di quest’ultimo come di mediocrità borghese e di indifferenza bonacciona, egli aveva liberato l’Ariosto da ogni sentimento di pro e contro l’astratta cavalleria, e se aveva toccato un assurdo scambiando estrema soprarealtà naturalistica con impersonalità («è tutto obliato e calato nelle cose e non ha un guardare suo proprio e personale»), aveva però indicato il sorgere del mondo ariostesco come da parte di chi si è reso padrone, secondo l’espressione di Poe, della natura naturans «che presuppone un legame fra la natura nel piú alto senso e l’animo dell’uomo». Perciò la chiarificazione crociana, se portava il problema ariostesco nei limiti della coscienza critica moderna, al riparo da pseudo-problemi e da giuochi (come quello del Canello per cui l’Ariosto avrebbe messo in burla il mondo contemporaneo perso dietro l’amore nelle sembianze dei paladini in corsa dietro ad Angelica!), o riprendeva i motivi desanctisiani o li lasciava ai critici che con maggiore unilateralità e piú diretta sensibilità li ripresero dopo di lui.

Se la conclusione desanctisiana è inaccettabile («questo mondo dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia e non sentimento della natura, e non onore, e non amore; questo mondo della pura arte, scherzo d’una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una creazione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un’alta ispirazione artistica»), i motivi vitali sono molti e una frase sola («si è cosí avvezzi a questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un mondo ordinario») sarà ripresa e sviluppata nel massimo sforzo di definizione del mondo ariostesco compiuto dall’Ambrosini con la formula del «naturale-meraviglioso» e vitalizzata, nella massima ricreazione moderna dell’Orlando, nel saggio del Momigliano.

Il Croce avanzò la formula «amore dell’armonia» per integrare ed inverare quella desanctisiana nella sua esigenza di una passione estetica per la bellezza. La formula va bene per l’indole ariostesca, per il clima rinascimentale, per le proporzioni di quel mondo, ma lascia aperto il problema del tono poetico ariostesco, del tono della armonia ariostesca. È ad ogni modo la maggiore chiarificazione che l’intelligenza abbia dato dell’ideale ariostesco ed ha avuto anche il grande merito che nella sua generalità e ampiezza ha escluso qualsiasi particolare contenuto degradandolo automaticamente a materia per l’armonia ed escludendo cosi da una seria considerazione quei pochi studi che hanno ancora voluto trovare un primo contenuto all’Orlando (la selva dell’amore, ad esempio, sarà solo un accenno al simbolo che la selva assume nell’errare della fantasia ariostesca e nella multiformità incontentabile della vita).

Subito dopo la sistemazione crociana, si prospettava la tesi dell’Ambrosini che mirava non a definire il nome dell’intento ariostesco, ma la forma del suo mondo realizzato: un terzo regno fuori della storia del tempo, detto comunemente cavalleresco, ma in realtà «regno del naturale meraviglioso». In questa formula cui la coscienza critica andava variamente anelando da tempo, viene ripreso dal De Sanctis il problema dell’atteggiamento ariostesco verso la vita («egli di problemi d’anime profondi non vive», «è il sublime poeta del luogo comune e del senso comune e del comune aggettivo») e viene posto l’Ariosto alla creazione di un mondo né mondano né celeste, la cui natura non implica nessun atteggiamento morale. Ma soprattutto questa formula ha il merito di trovare l’equivalente della magia ariostesca, operante la creazione di mondi senza enfasi, naturali e pure librati in una potenza di sogno piú audace di quella di qualunque «visionario». A quelle pagine, fondamentali nella loro sobrietà, si avvicina il Saggio del Momigliano che rappresenta il tentativo di commentare e ricreare, apparentemente secondo esteriori schemi ideali (Atlante, Orlando, Rodomonte, Angelica, Fiammetta), ma in verità secondo questo motivo della realtà magica, della naturalezza del sogno e piú ancora della realtà musicale, tutto il mondo dell’Orlando. Mondo però che per il Momigliano è ricco di sfumature sentimentali, di affetti appassionati e perfino tragici (quasi per far sentire il «cuore» dell’Ariosto), il che individua meglio certi episodi sottraendoli al comune denominatore del fiabesco, ma d’altra parte, anche se il Momigliano insiste sempre sulla trasfigurazione di tali affetti mediante l’illusione del sogno e della musica, porta spesso un certo languore, un romanticizzamento che intenerisce arbitrariamente la vita limpida dell’Orlando. Questa esuberanza di rilievo psicologico confluisce inevitabilmente con un certo preziosismo di sfumato, di sospeso che, non appena tocca l’effettivo aereo ariostesco, lo soffonde di una tenuità non sua.

La critica idealistica ha dunque interpretato la poesia ariostesca nei suoi motivi costruttivi e nella vita della sua armonia, mentre può ancora essere sviluppato il compito di guidare a una minuta lettura, di far sentire la ricchezza piena di questa poesia senza residui non poetici, cosí pura e cosí profondamente intellettuale, cosí nuova nella trasformazione intima delle comparazioni tradizionali in vere e proprie analogie, cosí varia ed unitaria, fuori cioè dai preconcetti di una rigida coerenza esteriore.

***

Si constaterà intanto come ogni interpretazione basata sui personaggi, intesi drammaticamente piú che come semplici nuclei di incontri, di pretesti alle avventure della fantasia, sia destinata a fallire, poiché i personaggi ariosteschi sono lontanissimi da una vera coerenza che li isoli e li faccia figure complete e riconoscibili nel ricordo come persone viventi: donde la nostra cura di eliminare ogni spiegazione psicologica che prolunghi arbitrariamente la vita dei personaggi fuori della musica che li trasporta. Angelica cosí, per dare un esempio di educazione alla lettura dell’Orlando, è soprattutto la «bella donna», una forma di femminilità, di bellezza che trascorre per il poema, scatena fughe e inseguimenti e già nella pazzia di Orlando svanisce per ricomparire nell’episodio di Medoro tenera e materna, completamente cambiata. Al poeta basta una prima intuizione (una forma di bellezza suprema da tutti agognata) e subito comincia ad arricchirla, a svilupparla non psicologicamente, non drammaticamente, ma musicalmente, poeticamente senza che con ciò si perda in una astrattezza fredda ed inumana: quegli spunti di paura femminile, di astuzia, di egoismo, di vanità che coesistono con la grazia del suo riposo nel bosco fiorito, pur cosí concreti ed umani, non sono dati di un carattere da legare in una coerenza psicologica, ma sono inizi di svolgimenti fantastici, di avventure poetiche. Che quella creatura reagisca e si comporti nel senso che veristicamente ci si aspetterebbe non importa affatto al poeta, che guarda il suo mondo senza la passione drammatica di altri poeti. Per spingere quanto diciamo ai suoi estremi, se la tendenza alla creazione del personaggio arriva alla ingenuità del romanziere Dumas che confessa di aver pianto quando è stato costretto a far morire il suo personaggio Porthos, la passione dell’Ariosto, che va tutta al disegno sinfonico dell’opera, non si altera in nulla quando un personaggio viene lasciato, quando una avventura si spenge senza un risultato palese. Anche in Orlando a volte c’è solo il «conte», il magnanimo paladino chiuso nella sua severa missione, nella sua amarezza di uomo superiore, a volte il pazzo scatenarsi di una mostruosità senza limiti, a volte una figura comica che sgambetta e provoca tanti bei giuochi di fantasia, tante rovine gustose, tante morti acrobatiche.

Se questo carattere musicale vive in tutto il poema, va però spiegato non come quella vaga musicalità di cui si parla a proposito di tutti i poeti, ma come una particolare esigenza dell’Ariosto nel creare il suo mondo. Questo suo mondo rappresenta il risultato piú alto e completo delle aspirazioni rinascimentali, cosí che lo possiamo vedere come un sopramondo rinascimentale, l’al di là del naturalismo umanistico. Come la Divina Commedia esprime le idealità medievali nella trasfigurazione poetica di Dante, l’Orlando sembra quasi l’unico paradiso che il rinascimento poteva sognare, paradiso che è la forma aerea e metafisica della esperienza personale dell’Ariosto, la forma della sua conoscenza dei motivi essenziali della vita. Una visione complessa ed unitaria della realtà e dell’uomo ormai affermata pienamente, libera dalla polemica antimedievale dei primi umanisti, una visione armonica che pure si basava su di una esperienza anche dolorosa e sulla comprensione intelligente delle bizzarrie, delle irrazionalità, dei contrasti della vita. Questa irrazionalità, che trova il suo canto esplicito nell’episodio del vallone della luna dove Astolfo trova il senno degli umani, non portava ad una soluzione pessimistica e logica, ma anzi avvivava la serenità che di contro e di sopra ad essa nasceva dalla bellezza, dalla perfezione armonica della bellezza. L’Ariosto, coerente nella sua posizione di uomo che vive e che sogna, non ricorse ad astratte allegorie per esprimere quella forma ideale del suo mondo, non si rifugiò nella fiaba che libera da ogni seria lotta con la sua fatuità e con la sua facile gustosità, non creò un sogno con il rammarico di un escluso dai beni pratici: creò la sua poesia sui motivi essenziali della vita che egli aveva concretamente sperimentato, ne trasse mediante la sua intelligenza profonda il senso della vita e della natura, lo offrí alla fantasia come filo conduttore affinché il suo errare divino non perdesse mai quel calore che è proprio delle opere dell’uomo completo.

In questo sopramondo l’Ariosto entrava agevolmente, lo iniziava quasi senza farcene accorgere, rinunciando ad ogni inventività esteriore: donde l’atteggiamento di cantastorie e la ripresa apparentemente pedissequa dell’Orlando innamorato.

Quando noi entriamo in questo regno poetico, ci troviamo in un’atmosfera metafisica, soprareale e pur calda ed umana, ci troviamo in un tempo e in uno spazio fusi insieme nella loro prima qualità di dimensioni umane, di fronte a colori presi nella loro intrinseca purezza, senza il tono sentimentale che avranno, ad esempio, nel Tasso. E appena ci avvediamo di essere in questo mondo di proporzioni nuove e pure umane nella loro origine piú pura, comprendiamo che non c’è né satira né esaltazione della cavalleria, che non vi si trattano istituzioni o costumi, che non vi si pongono problemi particolari e determinati, ma che l’Ariosto vi ha trasportato una esperienza libera della vita sul ritmo dl avventure della fantasia. Allora ci liberiamo per sempre da tutte le vane richieste che all’Orlando sono state fatte e ripetute di patriottismo o di precisi sentimenti morali. Dove fioriscono azioni poetiche dai sentimenti piú essenziali dell’anima umana, è inutile cercare delle risposte importanti a questioni che anche storicamente non hanno senso. Cosí, ad esempio, le invettive contro gli stranieri che coesistono con le lodi equamente ripartite fra gli avversari in campo, spagnoli e francesi, hanno un valore puramente convenzionale e non indicano, né possono indicare, quando si tengano presenti i tempi e il carattere dell’Ariosto, una vera coscienza nazionale. Hanno lo stesso valore delle lodi del cortigiano ai suoi padroni che sono ad ogni modo decorazione di sentimenti solo nella vita pratica biasimevoli. Tutte le possibili contese su questo contenuto ideologico e moralistico dell’Orlando cedono quando si sia capito che il poema va letto con la stessa ispirazione con cui si guarda un quadro cui non chiediamo nulla circa i problemi ideologici del suo autore.

L’Ariosto mirava dentro la sua mente divina alla costruzione di un mondo che non fosse solamente una semplice idealizzazione del mondo reale e tanto meno la rappresentazione di una tesi o di un programma, ma di un mondo assoluto, basato sul ritmo, sulla coerenza stilistica, sul puro fluire della visione.

Allora, non per operare un’assurda trasposizione da un linguaggio critico di un’arte a quello di un’altra, ma per indicare con maggiore chiarezza la purezza tutta estetica della costruzione dell’Orlando, ci si offrono facilmente le equivalenze pittoriche e musicali, si pensa che quella poesia è fiorita con lo stesso disinteresse al soggetto con cui i grandi pittori del tempo concepirono i loro quadri, in cui l’occhio esperto non cerca una madonna, un Ercole, una storia di flagellazione, ma l’accordo dei colori e delle linee, l’armonia visiva che su quei pretesti anche amati l’artista ha creato esprimendo il suo animo piú profondo, la sua forza o la sua grazia, a volte malgrado l’indicazione empirica del soggetto. Si pensa alla civiltà decorativa rinascimentale e si vede in essa la vera cultura ideale dell’Ariosto, il suo clima piú omogeneo, tra quattrocento e cinquecento, tra Paolo Uccello, Piero della Francesca e Raffaello.

E, pur sapendo il limite di tali indizi, chiameremo surrealistico (nel senso apollinairiano della parola) il metodo ariostesco per accentuare piú chiaramente il carattere libero del poeta sia dal realismo che da un gusto ornamentale, surrealismo eterno che consiste nel prendere un lato della realtà (colore puro, geometria, ritmo di un’azione errabonda) e poi crearne con la fantasia una soprarealtà in cui gli oggetti dell’artista vivono una loro nuova coerenza in un tempo ed in uno spazio nuovi.

Questo sopramondo ariostesco si svolge cosí sul ritmo di un viaggio senza fine, ritmo che l’intelligenza ha estratto dalla esperienza della vita. Perciò le sue leggi sono musicali e le sue proporzioni quelle di una geografia sterminata, ma non indefinita, perciò l’Ariosto costruisce non indugiando su di un punto culminante, non cercando un grido poetico, ma una linea melodica che si muova non nel vuoto dell’astrazione intellettuale, ma in un’aria scaldata dalla presenza totale del poeta.

Il viaggio ariostesco (si ricordi il viaggiatore sul mappamondo della terza satira) presuppone nella maniera piú chiara il senso soprareale dello spazio: illusorio e pure concreto, fatto di misure gigantesche e di lontananze rapidamente accorciate, cui collabora un tempo ora rallentato ora fugace, intimo alla libertà della memoria e pure chiaro come la divisione delle giornate reali. Questo sopramondo vive in questa geografia ricca e sfumata, a volte preciso paradiso naturalistico, come il giardino di Alcina, a volte favolosa nostalgia di un’Europa medievale che all’Ariosto veniva dalle epopee cavalleresche: le brume settentrionali, i deserti aridi della Spagna, la dolce terra di Francia. Bisogna sentire che l’epica medievale romanza è stata come la cultura generale europea, quasi il presupposto della formazione fantastica dell’uomo moderno, il riferimento piú sicuro ai suoi sogni, al suo bisogno di errare e di evadere fantasticamente e che l’Ariosto traeva dai racconti cavallereschi il sapore, il clima romanzo, e in esso faceva vivere quel ritmo strappato alla vita e diventato musica. Per prendere un esempio moderno, l’Europa medievale, cercata non come preciso paesaggio storico, è per l’Ariosto quello che Parigi e la spiaggia atlantica furono per Proust, e come questi frugò nei Gotha per le sue genealogie nobiliari cosí precise e inesistenti, cosí l’Ariosto riporta nella trama della fantasia piú libera le tradizioni dei cavalieri dell’epopea.

È un paesaggio quello ariostesco concreto e soprareale, chiaro e suggestivo insieme, perché il poeta lo evoca con estrema semplicità, ma su misure irreali e mai pretende di farne, come molti artisti fanno dei loro personaggi, un protagonista dichiarato del poema. Non insiste cioè a definirlo come valore a sé stante, non ci indica la sua natura di estrema opera della intelligenza e della fantasia, e anche quando siamo di fronte a paesaggi precisi e definiti (l’isola di Alcina, il castello di Atlante ecc.) essi non ci vengono imposti come fine ultimo di una descrizione, ma sono sempre pronti a sfarsi, a dileguare in quella specie di carta geografica fantasiosa e pur non strampalata, che rende metafisici, soprareali gli spazî, le proporzioni della terra, appunto perché deformano la realtà prendendone il senso piú intimo e nutrendone ogni particolare.

In questo paesaggio grandioso tanto da aver le proporzioni di una carta geografica, ma sempre fatto di punti piú veri di ogni paesaggio di natura, si stabilisce l’unità piú evidente delle avventure centrali del poema, e delle novelle che si incastonano episodicamente nel ritmo generale.

Queste bellissime novelle che incontriamo nel corso del poema, e che potremmo estrarre solo per polemica contro chi vede unicamente la linea del racconto e l’importanza dei personaggi principali come in un ordinario schema di romanzo, meritano una attenzione, che loro di solito non è concessa appunto per il preconcetto di una loro secondarietà e quasi di una loro minore serietà rispetto alla trama centrale del poema. Se si vuole una spiegazione della funzione di queste novelle, che ci fanno pensare per la loro bellezza e la loro importanza alle grandi novelle inserite nel viaggio di Don Chisciotte, si tenga presente che esse vivono come contrappeso alle sentenze sull’esperienza della vita che l’Ariosto ferma ogni tanto non in esempi moralistici, ma per trovare una precisione maggiore della linea poetica generale. In esse confluisce con trapasso piú immediato la saggezza ariostesca, la sua sapienza amorosa, che non volendo creare una casistica o una precettistica (il che non avviene neanche nelle sentenze poste all’inizio dei canti, le quali vivono in verità della agevolezza poetica con cui un problema morale vi appare risolto), si trasforma in pretesti piú determinati e romanzeschi per giuochi fantastici piú raffinati e particolari. Chi sente nella novella di Marganorre una condanna contro il misoginismo? Chi nel racconto di Olimpia una condanna contro il tradimento coniugale? Ma la presenza di quella situazione piú particolare ed autonoma dà al poeta la possibilità di un lavoro piú minuto e gustoso. La saggezza è stata presa nella sua forma pura ed è diventata armonia. Certo spesso vi si potrà cercare anche una funzione immediata di racconto; come nella novella di Fiammetta, narrata prima della morte di Isabella, si potrà vedere l’intento di far risaltare la sublime fedeltà della gentildonna dopo l’affermazione della infedeltà di tutte le donne (come se l’autore volesse contraddire subito una legge generale e perciò ingiusta con un caso concreto di virtú), o meglio per fare sbocciare quell’atto generoso dal pieno della leggerezza ed istintività della vita. Ma oltre a questa esistenza funzionale, le novelle hanno una loro vita che andrebbe rilevata piú di quello che di solito non si faccia. Spesso si rifugia in esse quel tanto di fiabesco e di miniaturistico e di melodrammatico da opera buffa cui l’Ariosto poteva arrivare spingendo avanti il suo gusto di movimenti leggeri e affrettati, di accorciamenti minuti ed organici, di sentimenti stilizzati in tutta la loro complessità. È allora che certe novelle hanno l’aria quasi della Chartreuse de Parme, è allora che rivediamo delle figurine sottili, dei paesaggi scarnificati come nelle novelle di Marganorre o di Norandino. Se quest’aria piú da opera buffa circola in alcune novelle, nell’aria generale del poema ogni gustosità è però rapidamente investita dal vento sano della musica che la rende piú vera ed universale.

Un’altra considerazione da tener presente nella lettura dell’Orlando consiste nel non cercare dappertutto l’ironia e il famoso sorriso ariostesco e nello stesso tempo nell’evitare di vedere dappertutto il fiabesco, il gusto di avventure comiche e tenui. Quando ci si eleva alla considerazione veramente estetica dell’Orlando come di un’opera dove la psicologia ha la funzione che può avere in un grande quadro o in una grande opera di musica, e si ha coscienza di accedere ad un mondo senza riferimenti pratici, cade ogni discussione sull’ironia, e se il limite possibile di questo mondo è la fiaba, la miniatura, il giuoco, non si può non avvertire quanto sia stonato l’insistere sul riso, sulla burla, sul poeta che gode e si frega soddisfatto le mani. Si sente invece che l’ironia non è che la disinvoltura descrittiva, spesso un espediente per agevolare un trapasso, spesso un ghiribizzo gustoso come gli artisti piú sereni si permettono, spesso l’opera dell’intelligenza che allontana ogni possibile abbandono sentimentale, ogni affermazione che non interessa la poesia, ogni tentazione di canto esuberante. E ricordiamoci anche che, tranne alcuni casi limite che noi noteremo, la soprarealtà ariostesca non ha nulla a che fare con la fiaba di Disney, è l’opera di una trasposizione divina del ritmo approfondito della vita in condizioni e proporzioni musicali.

Esclusa la fiaba e l’intento comico che si fondono in una visione della poesia troppo puerile ed edonistica, a confermarci in questa precisa valutazione del mondo dell’Orlando serve anche l’analisi del metodo che il poeta ha trovato pur permanendo nel pieno della tradizione classica.

È da notare anzitutto la presenza della «deformazione» (e possiamo adoperare la parola sia pure cautamente per quanto c’è di quattrocentesco ancora nell’Ariosto e per il permanere eterno di essa in ogni vera anche cinquecentesca trasfigurazione), cioè la riprova della libertà dell’artista dalla pretesa copia della natura, l’alterazione apparente di misure comuni non per bizzarre trovate, ma per riferirsi a misure piú intime che con la realtà non hanno nulla a che fare. La sua presenza si avverte anche dove il poeta sembrava esaminare accademicamente un nudo o scientificamente un oggetto di natura sí che anche un semplice verso di determinazione:

quello ippogrifo grande e strano augello

fa vedere all’occhio esperto un che di favoloso ed enorme, di deformato rispetto ad una indicazione precisa delle cose che risulta dalla posizione staccata, quasi goffa delle parole.

E tutto ciò entro una chiarezza cristallina, nel trionfo del naturalismo cinquecentesco, senza alterare materialmente le cose nel loro ordinamento normale. Perché i trasformatori piú veri son sempre quelli che agiscono piú in profondo e meno visibilmente. Allo stesso modo che la deformazione del volto della Primavera di Botticelli ha un significato piú eterno delle deformazioni fisionomiche di molte creature della pittura moderna.

Cosí è nuova, anche se poco appariscente, l’abolizione della maniera tradizionale dei paragoni basati su di un parallelismo logico o su di una semplice illuminazione dell’immagine nuova all’idea piú scura, e nuova la sostituzione di implicite analogie che si liberano dalla servitú del paragone e cantano il senso piú intimo di quella affinità poetica pur mantenendo all’esterno la massima chiarezza ragionativa:

languidetta come rosa,

rosa non colta in sua stagion, sí ch’ella

impallidisca su la siepe ombrosa.

Cosí non appena l’Ariosto si trasforma (ed è raro) in puro descrittore, in rivestitore poetico di motivi non elevati intimamente dal nuovo metodo, diventa letterario, infelice, mentre d’altra parte, per la prevalenza della musica generale nella costruzione del poema, anche questi momenti deteriori, di tradimento alla sua patria ideale, non ci urtano, sono sollevati dalla continuità del ritmo. Il metodo nuovo di cui parliamo è evidente anche esteriormente come nell’episodio del servo col girifalco e il cane alla caccia di Ruggero (VIII, 4); ma sempre, scopertosi in quelle occasioni, noi possiamo osservare l’incanto che opera in ogni parte del poema alleggerendo le cose dal loro peso senza renderle letterarie, senza privarle di un certo sapore di naturalità: e noi allora non pensiamo piú a notare una distinzione fra illusione e realtà, fra musica e profondo senso umano che si sono fusi nel mondo ariostesco.

In seguito a questo metodo di costruzione artistica, l’attenzione dell’Ariosto non si restrinse alla parola come grumo di sensazioni, di pensieri, di tradizione, ma si distese soprattutto nella linea melodica in cui parole e versi interi soggiacciono ad una fluida unità che non cerca accenti isolati in isolate espressioni. Vi sono poeti per cui ogni parola è un poema e testimonia il loro sforzo ad esaurirvi tutte le proprie capacità; vi sono poeti per cui una parola è l’inizio di un getto sensuale ed irriflesso: ma vi sono poeti come l’Ariosto per i quali la pasta musicale è cosí compatta e continua che le parole vi si sfanno senza risalto, quasi desiderose di contribuire ad un unico colore dominante. Continuità musicale che è stata avvertita implicitamente anche da tutti i critici che hanno constatato l’agilità ariostesca, quel divino prendere, interrompere, riprendere i diversi motivi senza la minima durezza, senza l’apparenza di un calcolo compositivo. Cosí anche le notazioni piú importanti si celano in parole senza pretese di originalità e spesso, piú che in parole, in frasi di pura misura musicale.

Per esempio, quando Pinabello induce Bradamante ad affidarsi alla pertica che egli tenderà nell’abisso, pronto a lasciarla cadere, tutta la vita di quella compiacenza delittuosa sembra ridursi nella semplice parola «sorride», ma poi fluisce nell’agevolezza della frase che segue:

sorride Pinabello e le domanda

com’ella salti, e le man apre e stende

dicendole…

Cosí anche la sintassi logica sembra vivere parallelamente a quella musicale, ma in realtà essa non vivrebbe da sé ed un ghiribizzo di assurdità dal punto di vista veristico è sempre pronto a verificare la sua illusorietà rispetto all’estremo risultato artistico di un sopramondo reso tale non da bizzarri capovolgimenti. ma dalla sottile e costante sostituzione dei rapporti nuovi entro le apparenze della vecchia realtà.

Tutto ciò che si è detto non faccia pensare che si voglia diminuire l’umanità dell’Orlando, la sua completezza spirituale: non si confonda umanità con interesse psicologico, si veda bene come all’Ariosto non interessa di motivare i risultati poetici di un atteggiamento e che solo a ritroso egli poteva determinarne il movente psicologico.

È questo soprattutto che si deve considerare leggendo l’Orlando, e cioè che alcuni gridi, alcuni trionfi di passione (Olimpia, Zerbino ed Isabella, Fiordiligi) non sono né dramma, né freddezza; vivono il loro giro musicale senza seguire il processo psicologico per cui a quegli scoppi di passione potrebbe arrivare un artista meno fantastico. Nel leggere quindi l’Orlando è da raccomandare ai lettori inesperti di non prolungare mai la vita della poesia fuori delle sue leggi musicali in raffronti razionali, di realtà empirica. E d’altra parte si deve raccomandare di non sentire troppo isolatamente le singole ottave. L’ottava ariostesca è certo dotata di quell’incanto che una misura base sapeva assumere nei classici, ma in realtà l’Ariosto ha asservito quella unità metrica al rapido svolgimento della propria linea musicale che richiede quella sorta di caduta e di ripresa che c’è fra la chiusa e l’inizio di due ottave e spesso ne ha superato i limiti con gioia, quasi a provare che la sua regolarità era legge intima, capace di spezzarsi e costretta solo ad una multiforme varietà di movimenti che l’ottava inquadra e raccoglie nella sua apparente monotonia.

Ho voluto cosí far leggere l’Orlando poeticamente, liberandolo non solo dagli pseudoproblemi da cui già la critica l’aveva liberato, ma insistendo sull’atteggiamento spirituale che esso impone al lettore. Quando si parla di sorriso, di letizia, di facilità si crede ad un fine epicureismo estetico, e ugualmente quando si vuole romanticizzare, drammatizzare quella vicenda tutta poetica, ci si accontenta di restare alle soglie di un mondo complesso in cui siamo posti a contatto di risultati tra i piú sublimi che l’arte possa raggiungere, in cui proviamo quel senso di benessere completo e serio che si prova entrando in Santo Spirito o nell’aria costruita dal convergere delle due ali del palazzo ducale d’Urbino.

Nota Bibliografica

Per l’Orlando ho seguito l’edizione critica di S. Debenedetti, Bari, Laterza, 1928.

Per i Cinque Canti: A.G. Baldini, Lanciano, Carabba, 1915.

Per le Satire: edizione di G. Tambara, Livorno, Giusti, 1903.

Per le Rime: Lirica, a cura di G. Fatini, Bari, Laterza, 1924.

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